APPUNTI SULLA CITTA’ NUOVA o dell’emergenza

21 Aprile 2020

Capitolo 2: DISPERSIONE O INTENSITA’, ZONIZZAZIONE O MESCOLANZA?

Continuando a riflettere sulla distanza tra le persone imposta dall’emergenza e sulle misure di precauzione necessarie nell’immediato, di cui ho scritto ieri nel capitolo 1, ci troviamo ad affrontare con occhi nuovi i temi che l’urbanistica già aveva studiato negli ultimi vent’anni del secolo scorso. La dispersione della città diffusa, la parcellizzazione, il magma spalmato sul territorio di villette, fabbriche e fabbrichette, centri commerciali, capannoni e lottizzazioni, così ben descritti da Andrea Zanzotto in alcuni passi memorabili sul paesaggio, parrebbero oggi riprendere vigore, riabilitate temporaneamente, visto che l’obbiettivo è la distanza tra le persone e l’eliminazione o diluizione degli assembramenti tipici delle città dense.

Così con la villettopoli diffusa, anche l’isolamento e l’autoesclusione mitigati dalla connessione digitale, potrebbero in emergenza tornare a lusingare i progetti di alcuni. L’anticittà può diventare una tentazione progettuale, sostenuta da idee sulla sicurezza e l’emergenza, sull’identità e il contenimento dell’integrazione tra culture diverse.

Continuando a riflettere sulla distanza tra le persone imposta dall’emergenza, bisognerà allora accettare una diluizione della densità desincronizzando i flussi delle attività, ma non potremo mai rinunciare a vivere insieme, all’intensità delle relazioni sociali, all’apertura, allo scambio, all’integrazione e all’interazione sociale. La contrapposizione tra la tentazione all’isolamento e la spinta verso l’interazione sociale, può diventare una buona occasione per progettare la distanza nelle nostre città così ricche di stimoli globali e contemporaneamente così locali ed identitarie. Il valore della mescolanza delle funzioni, contrapposto al principio obsoleto della zonizzazione funzionale, la complessità delle attività umane collettive in continua mutazione contrapposta alla dispersione individualistica sul territorio extraurbano, dovrebbero aiutarci a ripensare, a riprogettare la “città aperta” in tutti i suoi spazi pubblici, rimodulando la convivenza urbana ed il rapporto con gli altri, con la cultura, con il commercio e con il lavoro senza più tornare all’esasperato presenzialismo, alla stessa ansiogena mobilità e impaziente partecipazione, allo stesso perenne spostamento di flussi e di masse di persone.

Senza l’altro non c’è prospettiva, non c’è progetto, ma l’incontro con l’altro e l’interazione non potrà che avvenire sempre più negli spazi aperti ripensati e ridisegnati per trovare la giusta distanza tra i corpi, tra il valore locale e la complessità mondiale, per trovare la giusta mediazione tra le istanze mutevoli della convivenza e quelle urgenti della pandemia.

Sicuramente ci vorrà più spazio e ci vorrà più tempo per svolgere le stesse attività di prima. Un luogo pubblico che prima poteva contenere 1000 persone, d’ora in poi ne potrà contenere al massimo 300 e così una banchina della metropolitana, una sala di attesa di un ambulatorio, un bar, un ristorante, un teatro. Bisognerebbe quindi riuscire a non cancellare il valore dell’interazione sociale in funzione della sicurezza, cercando per quanto possibile una mediazione, ma ormai è chiaro che dovremo anche imparare ad accettare il rischio e la precarietà, se vogliamo continuare a vivere con gli altri.